L'aula di giustizia

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  • 21/09/2013
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Antonio Tabucchi, in La testa perduta di Damasceno Monteiro, traccia una bella descrizione dell'accesso al palazzo di giustizia e dell'aula di giustizia.

Di quella giornata Firmino avrebbe poi ricordato soprattutto le sensazioni fisiche, precise e insieme quasi estranee, come se non lo riguardassero, come se una pellicola protettiva lo isolasse in una specie di dormiveglia nel quale le informazioni dei sensi sono registrate dalla coscienza, ma il cervello non è capace di elaborarle razionalmente, e rimangono a fluttuare come vaghi stati d'animo: quel nebbioso mattino di una fine di dicembre in cui scese infreddolito alla stazione di Oporto, i trenini locali che scaricavano i primi pendolari con i volti pieni di sonno, il viaggio in
taxi attraverso quella città umida, dagli edifici arcigni, che gli parve tetra. E poi l'arrivo al palazzo di giustizia, le formalità burocratiche per entrare, le stupide obiezioni del poliziotto all'ingresso che lo frugò e che non lo voleva lasciar passare con il registratore, la tessera di giornalista che alla fine fu convincente, l'ingresso in quella piccola aula dove tutti i posti erano già occupati. Si chiese perché, per un processo così importante, avevano scelto un'aula così piccola, e la risposta la sapeva, certo, eppure non riuscì a formularla con se stesso, ne prese semplicemente atto, in quello stato di sensazioni acutissime e insieme attutite nel quale si trovava.
Trovò posto nell'angusta pedana riservata alla stampa e delimitata da una balaustra di legno sorretta da scure colonnine panciute. Si aspettava una folla di reporters, fotografi, flash. Niente di tutto questo. Riconobbe due o tre colleghi con i quali scambiò un rapido gesto di saluto e poi vide dei
giornalisti sconosciuti che probabilmente si occupavano di cronaca giudiziaria. Capì che molti giornali avrebbero pubblicato i loro servizi utilizzando i comunicati d'agenzia. Vide seduti in prima fila i genitori di Damasceno. La madre era infagottata in un cappotto grigio, teneva in mano un fazzoletto stropicciato e ogni tanto si asciugava gli occhi. Il padre vestiva un inverosimile giaccone a quadri neri e rossi, di tipo americano. Sulla destra, al tavolo degli avvocati, vide Don Fernando. Aveva posato la toga sul tavolo e studiava delle carte. Indossava una giacca nera e portava al collo un papillon bianco. Aveva delle occhiaie profonde e il suo grosso labbro inferiore pendeva più del solito. Fra le dita della mano sinistra rigirava un sigaro spento. Leonel Torres stava quasi rannicchiato sulla sua seggiola, con un'aria spaventata. Accanto gli sedeva una ragazza biondiccia e gracile che doveva essere sua moglie. Il sergente Titànio Silva era seduto accanto ai due agenti imputati. Gli agenti erano in divisa, Titànio Silva, in abiti civili, era elegantissimo, con un vestito gessato e una cravatta di seta. Aveva i capelli lucidi di brillantina.
La Corte entrò e il processo ebbe inizio.

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