L'isolamento del giudice

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  • 21/09/2013
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Sciascia è una miniera infinita di sguardi del letterato sul mondo della Giustizia, per questo c'è da attingervi con moderazione, ma non ci si può rinunciare.
Porte aperte non può che esserne l’apertura, traendone solo un piccolo brano, rispetto alla ricchezza di tutto il testo.

“Così, meditando sull’andamento tecnico di quel processo e ricollegandone certi momenti alla memoria di cose lette o sulle cose lette e pensate, il piccolo giudice
impercettibilmente si avvicinava all'imputato, alla sua contorta e feroce umanità, alla sua follia; se lo rendeva insomma, com'era suo dovere, penosamente visibile.
Che in ciò avesse parte la sua avversione al fascismo (anche se rifiutava di considerarsi antifascista, al fascismo soltanto opponendo la sua dignità nel pensare e nell'agire), era problema che un po' lo travagliava. Non poteva non pensare che se una delle tre vittime fosse stata, invece che l'avvocato Bruno, un cognato dell'imputato (anche da prima si detestavano) o un qualsiasi altro impiegato dell'ufficio, il processo sarebbe andato avanti asetticamente e come di routine, pur sempre involgendo, per lui, il problema di non arrivare alla pena capitale. Ma l'avvocato Bruno apparteneva a una corporazione e ne era, in provincia, il massimo rappresentante: impossibile che la corporazione non si levasse, con tutto il suo potere, con tutti i suoi mezzi, a che il massimo della pena cadesse sul colpevole: ci fosse o no il fascismo. Ogni corporazione reagisce esasperatamente ad ogni attentato alla propria sicurezza, anche a quegli attentati che si possono dire d'opinione; e figuriamoci a un attentato criminale, e da parte di una corporazione che, come quella degli avvocati (o dei giudici), nelle leggi sta di casa. Del tutto naturale e spontaneo, dunque, lo schieramento corporativo contro l'imputato: e lo si sarebbe avuto anche in un sistema di libertà. Si apparteneva invece al fascismo, era fascismo, l'idea che alla sua esistenza e sicurezza e difesa la pena di morte fosse come connaturata, sospesa su tutto ciò che potesse rivolgerglisi contro e pronta, al di qua o al di là del giudizio, a cadere su ogni persona che comunque l'offendesse. Così la pena di morte era rientrata, dopo circa quarant'anni, nella legge italiana: per la difesa dello Stato fascista; e si era arrivati a darla a chi aveva l'intenzione, soltanto l'intenzione, di attentare alla vita di Mussolini. Era poi stata estesa ai più gravi delitti non politici: ma le restava quell'impronta. Per cui il solenne funerale deciso dalle organizzazioni di denominazione fascista, e dal partito stesso, e poi il costituirsi parte civile dell'onorevole dottor Alessandro Pavolini, a nome e nell'interesse della Confederazione Fascista Professionisti e Artisti, erano già, per l'imputato, sentenza di morte; la Corte d'Assise soltanto chiamata a darle forma, apparato. E in ciò il giudice riconosceva che la sua avversione al fascismo avesse gioco, giustamente; ma cercava di contenerla dicendosi che non era del tutto vero, se lui si trovava a giudicare in quel processo e a fare i conti soltanto con la propria coscienza, con la propria «degnità». Ma sentiva, ogni giorno di più, come una indefinibile (definibilissima) minaccia, un senso di isolamento, un crescere della sua solitudine. E una domanda della moglie gliene aveva dato un senso doloroso e quasi ossessivo. Mai tra loro si era parlato del suo lavoro, di quel gravame di carte e di scrupoli che lui si portava anche a casa, nelle ore che passava chiuso nel suo studiolo, tra i suoi libri. E lo sorprese un giorno, a tavola, l'improvvisa domanda: « Lo condannerete? ». E certo intendeva chiedere se lo avrebbero condannato a morte. Temendolo, voleva credere. Ma il dubbio che, come tutti, ritenesse giusto gli dessero la morte e che ogni altra condanna le sembrasse un’assoluzione, si insinuò a roderlo, anche perché dalla sua risposta: « Certo che lo condanneremo» la moglie sembrò rasserenarsi, appagarsi”.

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