Relazione Scotti modifiche al funzionamento del Consiglio superiore della magistratura

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  • 13/06/2019
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RELAZIONE
DELLA COMMISSIONE MINISTERIALE
PER LE MODIFICHE ALLA COSTITUZIONE E AL FUNZIONAMENTO
DEL CONSIGLIO SUPERIORE DELLA MAGISTRATURA
Sommario
1. Premessa ................................................................................................................................................... 2
2. Composizione del Consiglio e sua operatività. Motivazione delle deliberazioni. ..................................... 3
3. Composizione della sezione disciplinare. Le eventuali incompatibilità. ................................................... 5
4. Strutture ausiliarie del Consiglio. La segreteria. ..................................................................................... 7
5. Segue. L’ufficio studi e documentazione. .................................................................................................. 9
6. L’iter della procedura tabellare e le competenze del consiglio direttivo presso la cassazione, dei consigli
giudiziari e del Consiglio superiore. ............................................................................................................. 10
7. Il programma organizzativo degli uffici di procura e la cooperazione tra uffici corrispondenti. ............ 13
8. Accelerazione di alcune fasi procedimentali di competenze dei capi degli uffici, del consiglio direttivo
della Cassazione e dei consigli giudiziari. .................................................................................................... 15
9. Modalità e termini per il conferimento di funzioni. Il rientro dal fuori ruolo. ........................................ 16
10. Il sistema elettorale relativo ai componenti togati del Consiglio superiore. ........................................ 18
11. Segue. Le ipotesi prese in esame e l’opzione per un sistema a doppio turno con liste concorrenti nel
secondo turno. ............................................................................................................................................ 20
12. Il sistema elettorale per il consiglio direttivo della Cassazione e dei consigli giudiziari. ...................... 27
13. La delega al Governo. ............................................................................................................................ 28
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1. Premessa
La commissione, istituita dal Ministro della giustizia, per la
formulazione di proposte legislative riferite ai temi della costituzione e del
funzionamento del Consiglio superiore della magistratura nella prospettiva
di una organica ricognizione dell’intera materia ordinamentale, è partita
dalla indiscutibile premessa che il Consiglio superiore è un organo di
rilevanza costituzionale deputato a garantire sia l’autonomia e
l’indipendenza della magistratura sia l’effettiva operatività della
giurisdizione. Ne consegue, quanto al primo aspetto, che la composizione
del Consiglio, quale organo elettivo e per certi versi rappresentativo del
corpo giudiziario, deve assicurare al meglio la realizzazione dei valori
enunciati dalla Carta costituzionale come propri dell’ordine giudiziario,
senza che prevalgano logiche di schieramento o di appartenenza. Sotto
l’altro aspetto, è indispensabile rivedere alcuni percorsi dell’attività
consiliare – e degli organi di collaborazione – suscettibili di incidere sulla
sollecita soluzione di problemi concernenti l’organizzazione e l’attività delle
strutture operative degli uffici e di coloro che li dirigono. La commissione si
è dato carico di sottolineare e valorizzare questo aspetto dell’attività del
Consiglio superiore – spesso trascurata anche dalla letteratura specialistica
– perché agire in modo proficuo e sollecito per l’organizzazione e la
disciplina delle strutture operative degli uffici, di coloro che li dirigono e di
quanti vi lavorano nell’esercizio della giurisdizione significa contribuire a che
il servizio di giustizia possa essere, per quanto possibile, sollecito, adeguato,
rispondente alle esigenze della collettività.
Nell’analisi dei vari aspetti della normativa si è anche considerato
l’ambito del potere di autodisciplina, secondo un corretto equilibrio tra la
legislazione primaria e la regolamentazione derivante dall’esercizio
dell’autodichia propria dell’organo di governo autonomo della magistratura.
E si è tenuto conto al riguardo delle considerazioni sistematiche formulate
sul punto dalla commissione Paladin del 1991, benché riferite ad un periodo
in cui, oltre i principi costituzionali, la normativa primaria era in gran parte
contenuta nella legge 24 marzo 1958, n. 195, e nell’ordinamento giudiziario
del 1941.
Pertanto la commissione ha individuato, nell’ambito della materia
oggetto di esame, alcuni punti nodali su cui ha soffermato il dibattito ed ha
formulato le valutazioni propositive, seguendo la sistematica della legge n.
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195 e dei numerosi interventi legislativi che nel corso del tempo l’hanno
modificata e integrata, in particolare i decreti delegati del 2006.
I punti di maggior rilievo su cui la commissione si è soffermata
possono così enunciarsi: composizione del Consiglio ai fini della validità
delle deliberazioni, modalità per tali deliberazioni e motivazione degli atti;
struttura della sezione disciplinare ed eventuali incompatibilità; formazione
degli organismi di supporto come la segreteria del Consiglio e l’ufficio studi;
competenze e dinamiche dell’attività consiliare per specifici settori a
cominciare da quello concernente le tabelle degli uffici e i programmi
organizzativi delle procure della Repubblica; competenze e termini per i
procedimenti innanzi al consiglio direttivo della corte di Cassazione e ai
consigli giudiziari; accelerazione delle procedure per il conferimento degli
incarichi; disciplina del rientro in ruolo per i magistrati che cessano dal fuori
ruolo; sistema per l’elezione dei componenti togati del Consiglio e sistema
elettorale relativo al consiglio direttivo e ai consigli giudiziari.
Le suddette problematiche hanno formato oggetto di un’ampia
analisi che ha costituito la base per proposte modificative della legislazione
vigente; nel corso dei suoi lavori la commissione ha avuto proficui incontri
con il Consiglio superiore in carica, con l’Associazione nazionale magistrati,
con il Consiglio nazionale forense e con l’Associazione dei costituzionalisti
italiani per recepire specifiche esperienze e opinioni su una tematica così
complessa.
2. Composizione del Consiglio e sua operatività. Motivazione delle deliberazioni.
Secondo la normativa vigente il Consiglio superiore della
magistratura, presieduto dal Capo dello Stato, è composto da due membri
di diritto, cioè il primo presidente della corte di Cassazione e il procuratore
generale presso tale corte, da sedici componenti eletti dai magistrati e da
otto componenti eletti dal Parlamento. Queste entità numeriche, come è
noto, sono stabilite dalla legge ordinaria giacchè la Costituzione si limita a
stabilire il rapporto percentuale tra le due categorie di componenti, cioè
due terzi per la categoria di eletti dai magistrati e un terzo per quella dei
componenti eletti dal Parlamento.
La commissione ha preso in esame la sufficienza o meno della
consistenza numerica dei componenti eletti e, nonostante l’idea, che pure è
stata espressa nel corso della discussione, di riportare a trenta il numero
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complessivo come era in passato, si è orientata nel senso di tener ferma la
suddetta consistenza perché la si è ritenuta sufficiente in rapporto alle
innovazioni operative di cui si dirà in seguito, ed anche per non distogliere
altri magistrati dall’esercizio della giurisdizione.
L’art. 5 della legge 24 marzo 1958, n. 195, nello stabilire il numero
minimo dei componenti la cui presenza è necessaria per la validità delle
deliberazioni consiliari, lo determina in dieci magistrati e in cinque
componenti eletti dal Parlamento. Questa consistenza del numero legale
corrisponde a quella che era prevista allorchè il Consiglio risultava composto
da venti magistrati e da dieci laici, cioè prima della riduzione dei
componenti a ventiquattro unità apportata dall’art 1 dalla legge 28 marzo
2002, n 44. Secondo la commissione andrebbe ripristinato l’originario
rapporto della metà per non pregiudicare l’operatività del Consiglio,
risultando molto più equilibrata la consistenza del numero legale di dodici
componenti elettivi, cioè otto togati e quattro laici, rispetto all’attuale
consistenza di ventiquattro membri.
Sempre in tema di operatività del Consiglio, la commissione si è
soffermata sulle modalità di redazione dei motivi concernenti le
deliberazioni consiliari allo scopo di escludere o, quanto meno, ridurre
ingiustificate occasioni di ricorso alla giurisdizione amministrativa e capziose
lungaggini giudiziarie. Partendo dal rilievo che talvolta il dibattito
nell’assemblea plenaria esprime elementi dissonanti rispetto alle
motivazioni proposte in sede referente, motivazioni cioè che non possono
certo tener conto di quanto emergerà dal dibattito, sembra opportuno – a
giudizio della commissione – aggiungere un comma all’art. 5 della legge 24
marzo 1958, n. 195, prevedendo che, nel caso ne ricorra l’esigenza, a
seguito del dibattito nel plenum e per l’importanza del tema oggetto della
deliberazione, il Consiglio designa l’estensore per l’integrazione della
motivazione affinché vi provveda anche con riferimento a quanto emerso
dal dibattito consiliare, e la sottoponga, così come integrata,
all’approvazione dell’assemblea. Ovviamente questa integrazione può
rendersi necessaria in casi particolari, ossia quando, a parte l’importanza del
tema, il deliberato incida su posizioni soggettive, ad esempio come gli
incarichi.
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3. Composizione della sezione disciplinare. Le eventuali incompatibilità.
Attualmente la cognizione dei procedimenti disciplinari a carico di
magistrati è attribuita ad una sezione disciplinare composta da sei
componenti effettivi e da quattro supplenti. Il collegio giudicante è quindi di
sei unità, un numero che appare eccessivo sia rispetto al compito da
svolgere sia rispetto al sistema di formazione collegiale nei vari settori della
giurisdizione civile e penale.
Si è perciò delineata la proposta di ridurre a sei unità la compagine
dell’organo disciplinare e, ai fini di una più sollecita dinamica del settore, si è
optato per una riduzione del collegio a tre componenti, cioè un laico che lo
presiede e due togati, prevedendosi inoltre, attraverso un’apia modifica
dell’art. 4 della legge 195 del 1958, il contemporaneo funzionamento dei
due collegi, entrambi operativi e con facoltà di reciproche sostituzioni
quando necessario a seguito di eventuali annullamenti con rinvio da parte
delle sezioni unite della Cassazione, ovvero nei casi di impedimento, di
astensione o di ricusazione di un componente. La commissione ha
sottolineato in particolare l’esigenza di una risposta sollecita, se non
immediata, alle richieste di procedimento da parte dei titolari dell’azione
disciplinare, escludendosi giacenze, arretrati o situazioni di stallo; e ciò sia
nell’interesse dell’incolpato sia – e soprattutto – nell’interesse della
credibilità dell’ordine giudiziario così posto in grado di reagire con
sollecitudine nei confronti di chi violi i doveri funzionali o extrafunzionali
specificamente stabiliti dall’ordinamento. Si è conservato, con qualche
modifica, il vigente sistema di elezione dei componenti della disciplinare, e
si è previsto che essa sia presieduta dal componente laico che abbia
riportato il maggior numero di voti, il quale presiede anche il primo collegio.
Poiché i due collegi funzionano, per quanto possibile,
contemporaneamente, si è demandato al Consiglio superiore la
determinazione di criteri oggettivi per l’assegnazione dei procedimenti
disciplinari all’uno o all’altro collegio.
Un dibattito più serrato ha avuto ad oggetto il rapporto tra l’esercizio
della giurisdizione disciplinare e la partecipazione alle attività di vera e
propria gestione della magistratura. Alcuni componenti della commissione
hanno prospettato il problema di una eventuale incompatibilità tra le due
funzioni, perché chi si sia manifestato per la responsabilità disciplinare
sarebbe virtualmente sempre esposto alla possibilità di doversi esprimere
nei confronti dello stesso magistrato sulla valutazione di professionalità, o
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sulla sua aspirazione ad un incarico direttivo o semidirettivo, su un
trasferimento di sede per incompatibilità ambientale; ovviamente tale
problema potrebbe anche attenere alla situazione opposta.
Secondo tale orientamento i membri della disciplinare non
dovrebbero partecipare a commissioni e a deliberazioni in plenum
concernenti quelle materie; viceversa per ogni altra materia di competenza
del Consiglio. Questo orientamento - si è fatto notare - non troverebbe
ostacoli sistematici e normativi perché la Corte costituzionale, interpretando
e valorizzando l’inciso “secondo le norme dell’ordinamento giudiziario“
contenuto nell’art. 105 della Costituzione, ha affermato che il Consiglio
superiore può organizzare in vario modo la sua attività e distribuire compiti
nell’ambito dell’autonomia che quell’inciso ad essa riconosce.
È stata anche prospettata una tesi alternativa secondo cui
l’incompatibilità potrebbe riguardare la sola partecipazione alle
commissioni competenti per le suddette materie, ma non potrebbe certo
riferirsi, per vincolo costituzionale, alla partecipazione al plenum e alle
relative deliberazioni su quelle materie, giacché le deliberazioni competono
al Consiglio nella sua interezza mentre le limitazioni priverebbero alcuni suoi
componenti dall’esercizio di funzioni per le quali sono stati eletti.
Secondo il prevalente orientamento della commissione questi casi
possono risolversi ricorrendo agli istituti dell’astensione e della ricusazione
senza trasformare una incompatibilità occasionale, comunque virtuale e
riferibile a determinati e circoscritti casi concreti, in una incompatibilità
permanente, per di più riferita a settori di particolare rilievo per la
funzionalità del Consiglio superiore, il che potrebbe suscitare oggettivi dubbi
di costituzionalità. Viceversa l’incompatibilità sussiste quando il
componente della sezione disciplinare si sia già, in commissione e nel
plenum, espresso sul trasferimento di ufficio secondo l’art. 2, secondo
comma, del regio decreto legislativo n. 511 del 1946.
Si è prevista, infine, la modalità di sostituzione di un componente
impedito, astenuto o ricusato, precisandosi che sulla richiesta relativa al
componente di un collegio decida l’altro collegio.
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4. Strutture ausiliarie del Consiglio. La segreteria.
Secondo il vigente art. 7 della legge 24 marzo 1958, n. 195, il
Consiglio dovrebbe disporre di una segreteria composta da due magistrati,
uno che la presiede, l’altro che coadiuva il primo e lo sostituisce in caso di
impedimento, e da personale della dirigenza, da funzionari della carriera
direttiva delle cancellerie e segreterie giudiziarie, da collaboratori di
cancelleria, operatori amministrativi, ausiliari.
La commissione, prendendo atto che il Consiglio, fin dalla sua
costituzione, si è sempre avvalso dell’opera di un certo numero di magistrati
oltre i due indicati dall’art. 7, ha esaminato a fondo la problematica relativa
all’interpretazione e alla validità di tale articolo nonché agli aspetti di merito
relativi all’utilità e opportunità per l’istituzione consiliare di avvalersi del
relativo apporto.
Originariamente l’art. 7 della legge 195 prevedeva che la segreteria
del Consiglio superiore fosse costituita da un magistrato di cassazione, con il
compito di dirigerla, e da altri undici magistrati con qualifiche analoghe o
inferiori. La successiva legge 12 aprile 1990, n. 74, introdusse una
particolare innovazione perché previde la partecipazione di soli due
magistrati e di un certo numero di dirigenti di segreteria, di funzionari e
ausiliari. L’applicazione della legge n. 74 ebbe vari differimenti, l’ultimo dei
quali disposto con il decreto legge n. 361 del 1995, convertito nella legge n.
437 del 1995, che fissava la data di operatività della legge n. 74 a quella
corrispondente alla efficacia dell’ultimo dei decreti legislativi previsti dalla
legge delega 25 luglio 2005, n. 150, situazione che ha comportato il protrarsi
della normativa anteriore.
Ma il decreto legislativo la cui efficacia era prevista come condizione
di operatività dell’art. 7 nuova versione, cioè quello previsto dall’art. 2,
comma 19, della legge 150 del 2005, non è stato mai emesso nel termine di
delega, termine scaduto il 26 ottobre 2010. Poiché l’operatività del nuovo
art. 7 era sottoposto alla condizione del completamento della
regolamentazione con un testo unico di ordinamento giudiziari, cioè l’ultima
delle deleghe previste dal citato art. 2, co. 19, l’intera previsione della legge
n. 74 del ’90 è risultata del tutto inapplicabile, con sua conseguente
abrogazione. Né il legislatore successivo, nonostante il protrarsi nel tempo
della disciplina recata dalla originaria formulazione dell’art. 7, è mai
intervenuto per recuperare la normativa della legge n. 74: non è
intervenuto con il decreto 14 febbraio 2000, n. 37, che si è limitato a fissare
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l’organico del personale amministrativo del Consiglio superiore senza
specificare la sostituzione dei magistrati, e che – d’altra parte non ha creato
un personale di peculiare conoscenze e capacità a supporto di una
istituzione di rilevanza costituzionale; né è intervenuto quando, con l’art 5
della legge 30 luglio 2007, n. 111, ha viceversa ampliato l’autonomia del
Consiglio in rapporto alle sue esigenze organizzative. Inoltre, che in
prosieguo di tempo il legislatore abbia considerato legittima la presenza di
magistrati nella segreteria del Consiglio, e nel numero previsto dall’art 7
prima maniera, è confermato dall’art 1 della legge 6 novembre 2012, n. 190,
che al comma 71 ha riferito la maggiore durata del fuori ruolo anche a tali
magistrati senza toccarne, come avrebbe certamente potuto fare, la
consistenza numerica consolidatasi nel corso del tempo.
Quanto ai profili della opportunità e utilità per l’istituzione consiliare
di avvalersi del suddetto apporto, secondo la maggioranza della
commissione la presenza di magistrati nella segreteria assicura al Consiglio
un contributo essenziale al sistema di governo autonomo in quanto essa,
per le caratteristiche di competenza tecnica nelle peculiari materie
dell’ordinamento giudiziario, contribuisce a rafforzare i profili di autonomia
e indipendenza della magistratura. Questo orientamento è rafforzato dalla
proposta – che la commissione formula – di stabilire un accesso con
modalità concorsuali idonee a valutare capacità e competenze tecniche
degli eventuali aspiranti, modalità che il Consiglio stabilirà con proprio
regolamento. D’altronde in un contesto normativo che consente il
collocamento fuori ruolo di un consistente numero di magistrati presso il
Ministero della giustizia, presso la Corte costituzionale o presso altri
ministeri ed organismi pubblici persino internazionali, ove manca o quanto
meno è attenuata la connessione con le materie dell’amministrazione della
giustizia, sembrerebbe veramente singolare che proprio al Consiglio
superiore della magistratura sia preclusa la possibilità di fruire di tali
contributi.
Non è mancata, nel corso della complessiva valutazione
dell’argomento, una opinione contraria che ha prospettato, per un verso,
l’interferenza delle correnti associative e la possibilità per il magistrato
partecipante alla segreteria di acquisire notorietà e vantaggi ai fini di una
sua successiva candidatura al Consiglio; per altro verso, l’esigenza di
costituire un funzionariato ad hoc (come quello degli assistenti
parlamentari), dotato di specifica ed alta professionalità nel settore
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ordinamentale e nell’organizzazione della giustizia, che possa offrire alla
compagine consiliare i necessari contribuiti. Si è osservato tuttavia che tale
professionalità allo stato non esiste, che il formarla richiederebbe tempi
consistenti e comporterebbe non indifferenti costi finanziari, che viceversa
l’ordine giudiziario già dispone di elementi dotati della professionalità
richiesta mentre il relativo impiego non comporterebbe costi aggiuntivi; si è
pure ribadito che valersi di appartenenti allo stesso ordine giudiziario, ai
quali è riconosciuta autonomia e indipedenza, garantisce meglio la funzione
e l’attività del Consiglio superiore che quella autonomia e quella
indipendenza deve assicurare.
Quanto alle preoccupazioni esposte, che certamente non vanno
sottovalutate, costituiscono validi rimedi sia introdurre condizioni e limiti
numerici e temporali alla presenza dei magistrati nella segreteria del
Consiglio, sia temporanei impedimenti alla legittimazione passiva per chi
abbia fatto parte della segreteria, sia altre regole che contrastino
efficacemente gli aspetti deteriori di eventuali interferenze dei gruppi
associativi.
Queste considerazioni sono alla base della proposta, che la
commissione formula, di ripristinare la normativa dettata dall’originario art.
7 della legge 195 del 1958, fissando tuttavia il numero massimo di
magistrati addetti alla segreteria (dodici in tutto), prevedendo appropriate
valutazioni di professionalità, giacché il magistrato addetto deve avere
un’adeguata esperienza nei settori dell’ordinamento giudiziario e
dell’organizzazione della giustizia, limitando il periodo di permanenza,
dettando regole generali per l’utilizzazione del fuori ruolo, ponendo la
segreteria alle dirette dipendenze del comitato di presidenza. C’è da
sottolineare, infine, che in altra delle modifiche proposte si è esclusa, per il
magistrato che abbia partecipato alla segreteria o all’ufficio studi, la
legittimazione all’elettorato passivo per la consiliatura successiva, quale che
sia stato il periodo di tale partecipazione, e demandando al Consiglio la
regolamentazione di modalità concorsuali per la partecipazione dei
magistrati alla segreteria.
5. Segue. L’ufficio studi e documentazione.
Per l’ufficio studi le considerazioni sono analoghe a quelle formulate
per la segreteria.
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Occorre premettere che, sul piano interpretativo delle norme, la
commissione ritiene corretto l’orientamento già seguito dal Consiglio che ha
fatto ricorso all’art. 210 dell’ordinamento giudiziario recante la possibilità di
conferire ai magistrati, in numero superiore a sei, incarichi speciali come
appunto quello presso l’ufficio studi e documentazione; infatti l’art. 7-bis,
aggiunto alla legge 195/1958 dalla legge n. 74 del 1990 (secondo cui al detto
ufficio si accede mediante pubblico concorso riservato ai funzionari direttivi
muniti di laurea in giurisprudenza o scienze politiche o statistiche o
economico-statistiche) non è mai entrata in vigore per i motivi esaminati a
proposito della segreteria. Ma anche sul piano istituzionale ed organizzativo
ricorrono, secondo la commissione, le stesse esigenze già esposte quanto
alla segreteria, e ciò giustifica la previsione normativa che si propone con un
nuovo art. 7 bis da inserire nella legge 195/1958.
La partecipazione è condizionata al numero di componenti l’ufficio
(non superiore a sei unità) e al possesso di un’ampia capacità nei vari settori
della ricerca giuridica e dell’approfondimento analitico e sistematico delle
norme nazionali e comunitarie; inoltre l’ufficio deve essere affidato alla
direzione di uno dei componenti eletti dal Parlamento, scelto dal comitato
di presidenza. Comunque è il Consiglio che, con proprio regolamento, fissa
le modalità concorsuali per l’accesso dei magistrati all’ufficio studi.
Per ampliare con altre esperienze il contributo culturale che al
Consiglio può dare questo ufficio, la commissione propone, con un’apposita
modifica dell’art. 7 bis, di arricchire la partecipazione con altre due unità,
cioè uno o due docenti universitari scelti dal Consiglio tra cinque professori
di materie giuridiche di prima e seconda fascia designati dal consiglio
universitario nazionale, ovvero di uno o due avvocati scelti dal Consiglio fra
cinque patrocinanti, iscritti da almeno dieci anni nel relativo albo, designati
dal consiglio nazionale forense; in altri termini, il Consiglio può integrare
l’Ufficio studi e documentazione con due docenti o due avvocati ovvero con
un docente e un avvocato, scelti fra le suddette categorie.
6. L’iter della procedura tabellare e le competenze del consiglio direttivo presso
la cassazione, dei consigli giudiziari e del Consiglio superiore.
Come è noto il sistema tabellare ha due profili, ciascuno dei quali
risponde ad una ben precisa ratio: per un verso, il radicamento dell’esercizio
della giurisdizione nel giudice naturale, per altro verso l’organizzazione di
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ogni ufficio secondo un programma che ne assicuri sia la funzionalità per la
migliore resa del servizio di giustizia sia per la cooperazione tra i capi degli
uffici.
Dall’esperienza maturata nel corso degli anni si evince purtroppo che
le determinazioni tabellari si realizzano in modo quasi sempre intempestivo
rispetto alle necessità degli uffici, donde l’esigenza di rendere più agevoli e
rapide le relative procedure. Non si vuole certamente ridurre la portata
dell’istituto che, per il settore della giudicante, afferma e tutela il principio
del giudice naturale; si vuole viceversa individuare modalità improntate ad
una diversa dinamica e, nel contempo, concentrare l’attività valutativa
presso il consiglio direttivo della corte di Cassazione e i consigli giudiziari,
organismi più vicini alle specifiche esigenze territoriali e alle eventuali
difficoltà che incontra il servizio giudiziario nel distretto.
Per gli uffici di procura il discorso è parzialmente diverso e sarà
sviluppato nel paragrafo successivo.
Nel dibattito in commissione era stata avanzata la proposta di
assegnare l’intera attività di valutazione e di determinazione finale al
consiglio direttivo della corte di Cassazione e ai consigli giudiziari o in via
autonoma, considerando questi organismi come istituzioni decentrate del
Consiglio superiore, oppure su delega dello stesso Consiglio; e ciò facendo
leva sull’inciso “secondo le norme dell’ordinamento giudiziario” contenuto
nell’art. 105 della Costituzione, inciso interpretato come attributivo di una
facoltà anche di decentramento dei compiti di governo autonomo. Ma
l’analisi sul tema ha posto in luce uno specifico dato normativo che
impedisce di esaurire il meccanismo di approvazione delle tabelle presso il
consiglio direttivo e presso i consigli giudiziari.
Se le tabelle hanno efficacia, come ogni altra determinazione
consiliare, con il decreto del Ministro della giustizia, l’attribuzione per così
dire decentrata, sia pure in via di delega, comporterebbe la trasmissione
degli atti dal consiglio direttivo e dai consigli giudiziari direttamente al
Ministro, così alterandosi quel sistema di interconnessione paritetica fra
Consiglio e Ministro della giustizia che è insito nel sistema istituzionale. E
questo anche in senso inverso, perché le eventuali osservazioni che sul
sistema tabellare il Ministro può fare andrebbero trasmesse direttamente al
consiglio direttivo e ai consigli giudiziari.
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Sulla base di tali considerazioni è stata prospettata una sostanziale
modifica dell’art. 10 bis della legge n. 195 del 1958 nei termini che seguono.
Poiché il Consiglio superiore partecipa all’organizzazione della
giustizia, con la suddetta modifica si prevede che esso, in prima battuta,
stabilisca principi e criteri generali cui devono ispirarsi l’approntamento
delle proposte e le relative valutazioni, ai fini delle determinazioni tabellari;
per converso, si è ritenuto di ampliare l’attività valutativa del consiglio
direttivo e dei consigli giudiziari, che devono compiere ogni opportuna e
necessaria valutazione delle proposte dei capi degli uffici, riscontrare il
rispetto dei principi e criteri generali fissati dal Consiglio, risolvere eventuali
problemi, anche se sollevati da singoli giudici, apportare le modifiche
ritenute necessarie, quindi approvare le proposte e trasmettere gli atti al
Consiglio superiore. Tuttavia queste approvazioni non hanno carattere
definitivo perché al Consiglio superiore è non soltanto riservata una
funzione di riscontro rispetto a quanto da esso stabilito in via generale, ma
anche la possibilità di adottare iniziative che ritenga opportune o
necessarie; tutto questo il Consiglio deve compiere in tempi brevi, non oltre
centoventi giorni, semmai secondo la regola del silenzio-assenso, perché,
scaduto questo termine deve comunque trasmettere gli atti al Ministro per
l’esecutività dei provvedimenti tabellari. In tal modo si evitano improduttive
lungaggini che vanificherebbero la stessa operatività del sistema.
Si è previsto inoltre che le determinazioni tabellari abbiano efficacia
per un quadriennio (un anno in più dell’attuale situazione); i capi degli uffici
possono proporre modifiche che il consiglio direttivo o, rispettivamente, il
consiglio giudiziario valuta e trasmette rapidamente al Consiglio superiore
per le determinazioni finali. Ma il capo dell’ufficio, per sopraggiunte ed
urgenti esigenze, può apportare con provvedimento motivato singole
modifiche immediatamente efficaci da inviarsi al consiglio direttivo o al
consiglio giudiziario, che a sua volta provvede alla valutazione e alla
tempestiva trasmissione al Consiglio superiore per le determinazioni finali;
tali determinazioni debbono essere adottate nel termine di trenta giorni
dalla ricezione del provvedimento, scaduto il quale senza alcuna iniziativa
del Consiglio l’esecutività del provvedimento diviene definitiva.
Il suesposto indirizzo di riforma incide conseguentemente sui poteri e
sulle modalità operative che al riguardo sono assegnate al consiglio direttivo
della Cassazione e ai consigli giudiziari; perciò comporta anche la revisione
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di quanto prescrivono gli artt. 7 e 15 del decreto legislativo 27 gennaio
2006, n. 25, in modo da assicurare sul tema piena coerenza normativa.
Si propone di aggiungere all’art. 10 bis della legge 24 marzo 1958, n.
195, una ulteriore disposizione che attiene anche ai capi della requirente: se
il capo dell’ufficio assume l’incarico nel corso del quadriennio di validità
delle tabelle, ha il dovere di predisporre, entro sei mesi dall’insediamento,
una relazione che rappresenti lo stato dell’ufficio all’atto della presa di
possesso. Tale previsione ha il duplice scopo di stimolare il neonominato a
rendersi dettagliatamente conto dello stato dell’ufficio, così da conoscerlo
in tutte le sue articolazioni, e di porre una base sulla quale fondare le
variazioni tabellari o del programma organizzativo che eventualmente
saranno proposte in prosieguo di tempo; insomma una modalità che serve
anche a dare coerenza a successive iniziative di organizzazione del
complesso giudiziario per una maggiore efficienza del servizio di giustizia.
7. Il programma organizzativo degli uffici di procura e la cooperazione tra uffici
corrispondenti.
Il doppio profilo del sistema tabellare richiamato nel precedente
paragrafo è tipico e proprio del settore della giudicante, ove occorre sia
tutelare il principio del giudice naturale attraverso l’articolazione degli uffici
e la distribuzione dei procedimenti sia la predisposizione di un programma
che assicuri la funzionalità del servizio di giustizia.
La situazione è diversa per il settore della requirente dove tipologia di
tali uffici e legittimazione funzionale del procuratore della Repubblica
impediscono di riferire ai sostituti il principio del giudice naturale. Tuttavia il
programma organizzativo, che costituisce una parte rilevante del sistema
tabellare, non può non riguardare anche tali uffici che devono pur’essi
rispondere a criteri di funzionalità e di efficienza come ogni complesso
dell’apparato giudiziario.
Si propone quindi di inserire nella legge n. 195 del 1958 l’art. 10 ter
secondo cui il Consiglio superiore determina principi e criteri generale per la
formazione del programma organizzativo, principi e criteri ai quali il
procuratore generale della Cassazione, i procuratori generali delle corti di
appello e i procuratori della Repubblica sono tenuti, secondo l’art. 1, commi
6 e 7, del decreto legislativo 20 febbraio 2006, n. 106. Si propone inoltre di
rivedere la previsione di questo articolo specificando la predeterminazione
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dei criteri di assegnazione ai procuratori aggiunti e l’indicazione della
tipologia di reati per i quali i meccanismi di assegnazione sono di natura
automatica; occorre infine prevedere, con un comma 6 bis, analoghi criteri
organizzativi per le procure della Repubblica nelle quali siano istituite
direzioni distrettuali antimafia.
Alla cosiddetta “presa d’atto” prevista dalla normativa vigente si è
ritenuto di dare un contenuto valutativo affinché il programma predisposto
riceva una qualche forma di controllo; si propone di conseguenza che i
provvedimenti con cui il capo dell’ufficio requirente adotta o modifica il
programma siano trasmessi al Consiglio superiore previo parere del
consiglio direttivo e rispettivamente dei consigli giudiziari. A sua volta il
Consiglio superiore verifica la conformità ai principi e ai criteri generale e ne
prende atto; ma può anche formulare osservazioni alle quali il capo
dell’ufficio requirente deve dare riposte entro un certo termine. Anche in
relazione a tale potere di verifica si è ritenuto di stabilire che se il Consiglio
non prende iniziative nel termine di centoventi giorni, cioè non formula
osservazioni ma neppure si pronunzia sul programma organizzativo, la presa
d’atto si intende comunque adottata.
Secondo la commissione, comportando la redazione dei progetti
tabellari e dei programmi organizzativi un impegno che responsabilizza i
capi degli uffici, progetti e programmi debbano essere inseriti nei fascicoli
personali affinché se ne tenga conto allorché occorre procedere alle
valutazioni di professionalità ovvero in occasione di conferma nell’incarico o
di conferimento di ulteriore incarico.
Sulla base della constatazione che talvolta i capi degli uffici
corrispondenti (cioè giudicanti e requirenti) non coordinano in modo
efficace le rispettive organizzazioni operative, si è ritenuto di sottolineare il
reciproco dovere di intese e di accordi con possibile intervento del Consiglio
superiore.
Le due ultime prescrizioni possono formare oggetto di uno specifico
nuovo articolo, cioè del 10 quater da aggiungere nel testo della legge n. 195.
Da notare che anche i capi degli uffici della requirente, i quali
assumano l’incarico nel corso di validità del programma organizzativo,
hanno il dovere di inviare al Consiglio la relazione sullo stato dell’ufficio
come prescrive il quarto comma dell’art. 10 bis nuova formula.
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8. Accelerazione di alcune fasi procedimentali di competenze dei capi degli uffici,
del consiglio direttivo della cassazione e dei consigli giudiziari.
Nell’esaminare l’attività di competenza dei capi degli uffici, del
consiglio direttivo e dei consigli giudiziari, la commissione ha preso in esame
alcuni aspetti di tali attività che costituiscono fasi di procedimenti la cui
conclusione appartiene al Consiglio superiore.
L’esperienza al riguardo evidenzia lungaggini e ritardi per
adempimenti che, facendo parte dell’iter procedimentale, finiscono per
incidere sulla tempestività dell’atto conclusivo. Perciò la commissione ha
ritenuto di fissare dei termini, prevedendo anche misure di indiretto stimolo
all’adempimento; si propone quindi di inserire, dopo l’art. 16 del decreto
legislativo 5 aprile 2006, n. 160, e sotto la rubrica “Disposizioni finali”, l’art.
16 bis recante una strategia della tempistica che per la formazione delle
tabelle, la valutazione di professionalità e il conferimento di incarichi,
riguarda sia gli adempimenti di competenza dei capi degli uffici sia l’attività
del consiglio direttivo e dei consigli giudiziari. Sono previste moderate
possibilità di proroga dei termini per i casi di richiesta di chiarimenti o di
informazioni.
In questa strategia della tempistica si è tenuto conto, fra l’altro, delle
proposte che la commissione per la riforma dell’ordinamento giudiziario,
presieduta dal Prof. Vietti, sta mettendo a punto per razionalizzare e
semplificare, anche attraverso i mezzi informatici, la redazione e
l’acquisizione dei pareri e degli altri elementi valutativi necessari per la
definizione dei procedimenti. In questo modo, soprattutto quando pareri ed
elementi di valutazione sono positivi, al Consiglio superiore le informazioni e
le proposte possono essere date in tempi molto brevi.
Quanto alle misure indirettamente costrittive, possibili per i capi degli
uffici e per i relatori delle pratiche degli organi collegiali, si propone che del
mancato rispetto dei termini si tenga conto allorché, per i suddetti
magistrati, si valuta la professionalità e l’idoneità per il rinnovo di funzioni
direttive o per il conseguimento di altro incarico.
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9. Modalità e termini per il conferimento di funzioni. Il rientro dal fuori ruolo.
Nell’ambito di questa strategia della tempistica la commissione ha
ritenuto di stabilire termini per attività di rilievo quali il conferimento delle
funzioni di cui all’art. 10 del decreto legislativo 160, cioè quelle che
comportano incarichi direttivi o semidirettivi del settore della giudicante e
della requirente sia di merito che di legittimità. Anzi l’innovazione ha un più
ampio quadro normativo recato dall’art. 13 bis, da inserirsi nel decreto
legislativo 27 gennaio 2006, n. 25; infatti con la nuova disposizione si
stabilisce che la vacanza di posti comportanti il conferimento delle funzioni
di cui all’art. 10 deve essere pubblicata sei mesi prima della cessazione dal
servizio da parte del magistrato già titolare dell’incarico o della maturazione
del periodo massimo di permanenza nell’esercizio della funzione. Ciò allo
scopo di evitare eccessive soluzioni di continuità nella gestione dell’incarico
e nell’esercizio della funzione che creano pregiudizievoli vuoti certamente
non colmabili con supplenze, applicazioni e altri rimedi provvisori.
L’art. 13 bis, che si propone, stabilisce anche le modalità della
pubblicazione mediante posta elettronica e il termine non superiore a
trenta giorni, entro il quale l’interessato deve inoltrare domanda al capo
dell’ufficio e al presidente del consiglio direttivo o, rispettivamente, del
consiglio giudiziario.
La domanda introduce attività di competenza del capo dell’ufficio e
degli organi collegiali, attività che hanno carattere propedeutico e
strumentale rispetto alla decisione del Consiglio superiore. Sempre per
ragioni di tempestività, il capo dell’ufficio deve esprimere il parere entro
quindici giorni, il consiglio direttivo e il consiglio giudiziario entro
quarantacinque giorni dalla ricezione dell’istanza, e trasmetterlo
immediatamente al Consiglio superiore; per coerenza si prevede
l’applicazione della misura, indirettamente costrittiva, prevista dall’art.13
bis, sesto comma, nuova versione, del decreto legislativo n. 160.
Nella disciplina che si propone è stabilito, anche per la decisione del
Consiglio superiore, un termine, di novanta giorni, prorogabile di altri
quarantacinque giorni per la necessità di informazioni o chiarimenti. Ma
poiché l’attività di competenza del Consiglio è duplice, in quanto si svolge
nella commissione referente e poi nel plenum, la disciplina deve essere
necessariamente diversificata. Per prassi il rapporto tra commissione
referente e plenum ha un punto di snodo che potremmo chiamare “avviso
di prontezza”, comunicato dal presidente della commissione al
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vicepresidente per la successiva redazione dell’ordine del giorno regolante
l’attività dell’assemblea plenaria; ebbene con la disciplina recata dal nuovo
art. 13 bis, da inserire nel decreto legislativo 160 del 2006, si propone di
invertire questo rapporto nel senso di riconoscere al vice presidente,
nell’ambito dei suoi poteri istituzionali e quale organo in costante rapporto
con il Presidente del Consiglio superiore, una funzione di stimolo
all’osservanza della tempistica concernente l’attività istruttoria. Si vuole,
cioè, che per le deliberazioni sui direttivi e semi direttivi il vice presidente,
tenendo conto del carico di lavoro della commissione referente, stabilisca i
tempi entro i quali le singole proposte debbono essere rese per l’iscrizione
all’ordine del giorno dell’assemblea. Si prevede così, con uno specifico
comma del nuovo art. 13 bis, che in caso di ritardo rispetto ai tempi stabiliti
dal vice presidente e di superamento del termine di novanta giorni (ed
eventuale, ulteriore proroga), sia lo stesso presidente della commissione a
formulare la proposta entro i successivi trenta giorni; se non lo fa, il
vicepresidente nomina un altro relatore diverso dai componenti della
commissione il quale, nei successivi trenta giorni, formula la proposta sulla
base della documentazione disponibile. In questo modo si possono
sollecitare e realizzare dinamiche più adeguate allo svolgimento dell’attività
consiliare e soprattutto si possono contenere temporeggiamenti da parte
delle commissioni in attesa di defatiganti accordi tra gruppi, specie quando
si tratta di assegnare incarichi direttivi e semidirettivi. A parte ciò, il
meccanismo accelera comunque procedure di rilievo il cui sollecito esito è
importante per l’organizzazione e l’espletamento del servizio di giustizia.
Può darsi che le regole stabilite per il Consiglio superiore abbiano, in
pratica, un effetto prevalentemente ottativo; ma costituiscono pur sempre
disposizioni che, se non rispettate senza giustificato motivo, tolgono alle
articolazioni istituzionali la credibilità indispensabile al buon andamento
dell’azione amministrativa. Resta ovviamente aperto il problema di
eventuali responsabilità risarcitorie per perdita di chances.
Altro punto di rilievo riguarda il rientro nel ruolo organico della
magistratura per i magistrati i quali cessino dal fuori ruolo. Esso forma
oggetto di una innovazione che si propone di inserire con il comma 1 bis
inserito nell’art. 50 del decreto legislativo 150/2006. L’innovazione prevede
che chi cessa dal fuori ruolo deve darne immediata comunicazione al
Consiglio superiore; il Consiglio, nel termine massimo di un mese, lo
ricolloca nel medesimo ufficio ove prestava originariamente servizio. Se in
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tale ufficio non ci sono posti vacanti ovvero se con esso sussistono i motivi
di incompatibilità previsti dal comma 1 o altri motivi di incompatibilità, il
Consiglio, in attesa dello svolgimento della procedura per il trasferimento a
domanda o per l’eventuale conferimento di un incarico, dispone, nel
termine massimo di un mese e in via temporanea, o l’applicazione presso
l’ufficio di origine, anche in soprannumero, se non ricorrono con esso
ragioni di incompatibilità, ovvero presso altro ufficio. Con tale previsione si
cerca di evitare alcuni sgradevoli episodi di notevoli ritardi frapposti al
rientro in ruolo specie nel caso di magistrati che abbiano rivestito incarichi
elettorali.
10. Il sistema elettorale relativo ai componenti togati del Consiglio superiore.
Il vigente meccanismo elettorale per la nomina dei magistrati al
Consiglio superiore, fondato su un sistema maggioritario senza voto di lista
e articolato su tre collegi unici nazionali a base uninominale, si ispirava al
dichiarato proposito di contrastare taluni degenerazioni correntizie e di
impedire indebite interferenze di gruppi associativi. Ma nei fatti questo
scopo non è stato raggiunto, anzi ha creato l’effetto, sicuramente opposto a
quello voluto dalla legge 28 marzo 2002 n. 44, di limitare i candidati ad un
numero corrispondente o comunque di poco superiore a quello degli
eleggibili per intese preventive agevolmente controllate da gruppi
associativi. Di qui le numerose e pressoché unanimi critiche e la necessità di
rivedere le modalità di elezione, cioè di esaminare e valutare sia i sistemi
che nel corso del tempo sono stati utilizzati per l’elezione dei componenti
togati, sia quelli comunque sperimentati anche in altri Paesi per istituzioni
politiche o amministrative.
In via preliminare è stata presa in considerazione la proposta – già
formulata dalla commissione Balbone nel dicembre del ’96 – di un rinnovo
ogni volta parziale della compagine consiliare nella duplice prospettiva di
ridurre i tempi morti che normalmente seguono ad ogni rinnovo e di
favorire prassi organizzative consolidate. Ma, a parte che essa dovrebbe
riguardare componenti togati e laici e che i tempi e i costi per l’elezione
biennale si raddoppierebbero, c’è un ostacolo costituzionale non superabile.
Infatti una necessaria norma transitoria regolante per la prima volta il
passaggio dall’uno all’altro regime dovrebbe o prorogare di due anni la
permanenza della metà dei componenti in carica o ridurre, sempre per metà
dei membri, a due anni la partecipazione al Consiglio, in netto contrasto con
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l’art. 104 della Costituzione secondo cui i membri elettivi durano in carica
quattro anni. Insomma, per risultare compatibile con l’art. 104, della
Costituzione il rinnovo parziale sarebbe dovuto andare a regime sin
dall’inizio della vita del Consiglio superiore; viceversa, se introdotto come
riforma nella continuità della vita del Consiglio, esso risulterebbe in
contrasto con la norma costituzionale.
Sul possibile sistema elettorale il dibattito in commissione è stato
ampio e variegato, impegnando molte sedute. Al riguardo si è tenuto conto
dell’invito formulato dal Ministro, sin dall’insediamento della commissione,
di analizzare i sistemi praticabili ma in quanto coerenti con i principi
costituzionali relativi all’organo di governo autonomo della magistratura.
Sotto questo aspetto la commissione ha espresso un giudizio negativo
quanto al meccanismo fondato sul sorteggio tra i magistrati, che negli ultimi
tempi ha trovato qualche assertore. Gli argomenti addotti a sostegno sono
sostanzialmente due: se si riconosce pari capacità a tutti i magistrati,
ognuno è idoneo a svolgere l’attività consiliare, anche se scelto per
sorteggio; l’art. 104 della Costituzione riferisce il principio di elettività al solo
elettorato attivo, non pure a quello passivo, quindi non si è obbligati a
fondarlo sull’elezione.
E’ bene sottolineare, quanto al primo argomento, che una cosa è la
professionalità giudiziaria, intesa come idoneità all’esercizio della funzione
giurisdizionale virtualmente riconosciuta a tutti i magistrati, altra cosa è la
capacità di governo e di gestione della magistratura e del servizio di giustizia
che è la funzione tipica del Consiglio superiore; cioè una capacità che
richiede competenze organizzative e di coordinamento del corpo giudiziario
e della macchina operativa, idoneità alla programmazione degli interventi
tanto nel quadro dell’ordinamento giudiziario quanto in quello delle
oggettive disponibilità, attitudine propositiva e di valutazione del rapporto
costi-benefici, capacità di individuare le caratteristiche specifiche per il
conferimento di incarichi direttivi, sensibilità nel rapporto con altre
istituzioni e in particolare con il Ministro della giustizia; insomma una
molteplicità di requisiti non omologabili a quelli tipici del magistrato e la cui
identificazione è comunque incompatibile con una scelta del tutto casuale.
Quanto al secondo argomento, una corretta lettura dell’art. 104
suscita innegabili dubbi di costituzionalità su una investitura mediante
sorteggio pur se circoscritto ad una prima fase che individui gli eleggibili.
Con la formula “gli altri componenti sono eletti tra gli appartenenti alle varie
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categorie” di magistrati, la norma riferisce il principio dell’elettività anche
all’elettorato passivo, nel senso che ogni appartenente ad una delle
categorie può essere eleggibile, tanto più che neppure una preselezione per
sorteggio potrebbe impedire il diritto dei non sorteggiati a proporre la
propria candidatura.
D’altra parte il Costituente, fissando il principio della elettività dei
componenti, ha inteso sia fondare la scelta su base fiduciaria perché,
nell’esprimere il voto, l’elettore riconosce idoneità, capacità, valenza
istituzionale all’eligendo, il che è incompatibile con una sua individuazione
meramente casuale, sia valorizzare la caratteristica essenziale del Consiglio
superiore che non è un semplice consiglio di amministrazione; è piuttosto
una istituzione di garanzia nonché rappresentativa di idee, di prospettive, di
orientamenti su come si effettua il governo della magistratura e su come si
organizza il servizio di giustizia, anzi su quale sia il ruolo della magistratura e
dello stesso Consiglio superiore. Insomma, anche sotto questo profilo il
sorteggio suscita dubbi di costituzionalità. Senza dire che esso risulterebbe
quantomeno distonico rispetto al parallelo meccanismo di elezione dei
componenti laici.
11. Segue. Le ipotesi prese in esame e l’opzione per un sistema a doppio turno
con liste concorrenti nel secondo turno.
Nella diversa prospettiva di rispondenza ai principi costituzionali che
caratterizza altri sistemi elettorali, la commissione ha in via pregiudiziale
sottolineato l’esigenza che il sistema adottabile risponda ad alcuni requisiti
essenziali, e cioè: che si ispiri al principio della parità di genere; che risulti
nettamente diverso dal sistema vigente sul quale – come si è detto – le
critiche sono state pressoché unanimi; che garantisca la possibilità di scelta
tra un’ampia platea di aspiranti ai quali sia dato proporsi come candidati a
prescindere dalla designazione di gruppi associativi; che renda riconoscibile
e manifesto il progetto di giurisdizione che i candidati intendono
presentare. Coerentemente a tale esigenza è sembrato a tutti necessario
che la distribuzione dei magistrati da eleggere tenga conto della diversa
consistenza numerica di ciascuna categoria, adottando perciò il rapporto
“due + quattro + dieci”; che le candidature siano presentabili soltanto nel
collegio ove il magistrato esercita l’attività giudiziaria; che l’eventuale
molteplicità di collegi debba corrispondere al numero degli eligendi per
categorie e debba assicurare contiguità territoriale nonché una tendenziale
parità numerica del corpo elettorale in ciascun collegio, col divieto di
inserire nel medesimo collegio più di uno dei distretti più numerosi. Infine la
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commissione ha condiviso appieno le esigenze di rivedere l’elettorato
passivo nel senso di escluderlo, oltre che nelle ipotesi già previste, e cioè per
chi abbia fatto parte del Consiglio della cui rielezione si tratta, per i fuori
ruolo e per i magistrati sospesi dalle funzioni o che abbiano subito una
sanzione superiore all’ammonimento, anche per chi non abbia ancora
conseguito la prima valutazione di professionalità, per chi abbia partecipato
alla segreteria o all’ufficio studi, quale ne sia stato il periodo di servizio, per
chi svolga o abbia svolto nel quadriennio precedente le funzioni di
segretario generale della scuola superiore della magistratura o che faccia
parte o abbia fatto parte nel quadriennio precedente del consiglio di
amministrazione della scuola, nonché per chi al momento della
convocazione delle elezione rivesta o abbia rivestito nel quadriennio
precedente cariche amministrative, anche elettive, in amministrazioni
pubbliche o enti locali.
La commissione ha poi preso in considerazione i sistemi prospettati
come praticabili, riservandosi l’opzione per uno di essi. Si tratta del
proporzionale a turno unico con liste concorrenti, del maggioritario a
doppio turno, di un sistema ibrido con liste concorrenti ma senza voto di
lista, del sistema con collegi nazionali a voto trasferibile e di un sistema
articolato su un primo turno con collegi locali senza liste e su un secondo
turno per collegi nazionali ma con liste concorrenti.
È certamente necessario analizzare i possibili sistemi elettorali e
scegliere quello che garantisca un’ampia platea di candidature, una pluralità
di idee e di culture prospettate dai candidati, la piena autonomia sia del
corpo elettorale, sia degli eletti chiamati ad esercitare le funzioni consiliari;
è necessario perciò circoscrivere eccessive interferenze di gruppi organizzati
ed escludere la possibilità di un vincolo di mandato riguardante gli eletti. Pur
nella consapevolezza che le formule elettorali non possano di per sé sole
evitare distorsioni o forzature nell’organizzazione del consenso ma che
molto dipenda dal senso di responsabilità e di autonoma determinazione
del corpo elettorale la commissione ha preso in considerazione i
meccanismi elettorali più rispondenti agli obiettivi prefissati.
Il proporzionale con liste concorrenti si configura sulla base di un
collegio unico nazionale per la quota di legittimità e di una pluralità di
collegi territoriali non molto circoscritti. La selezione dei candidati per
l’unica tornata elettorale avviene secondo la loro adesione ad un
programma fondato sulla cultura della giurisdizione e sulle metodologie di
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governo della magistratura, cioè sulle attività e iniziative del Consiglio
superiore e sui modi di organizzare il servizio di giustizia. Perciò il sistema
prevede il voto di lista e le preferenze; quindi l’elettore riceve tre schede, su
ciascuna dà il voto di lista e segna una oppure due preferenze purché di
genere diverso, ma può anche dare la seconda preferenza, avvalendosi del
panachage, a favore di un candidato compreso in altra lista. Lo scrutinio si
attua attraverso il quoziente elettorale che determina la quota di eligendi
per ciascuna lista e, in questo ambito, il numero di eletti con maggiori
preferenze.
Questo sistema non determina di per sé l’ampliamento della platea
degli aspiranti, se non richiedendo un numero minimo di candidati per ogni
lista; assicura però, attraverso le liste e in misura nettamente maggiore, la
riconoscibilità delle idee di giurisdizione rappresentate dai candidati. Nel
contempo, prevedendo la pluralità di collegi e la possibilità della seconda
preferenza anche con panachage, attenua gli inconvenienti del
proporzionale puro e garantisce la parità di genere in termini di chance
imponendo tale parità nelle candidature e in ordine al risultato nei limiti
della necessaria differenziazione della seconda preferenza.
Il sistema maggioritario a doppio turno necessario è fondato su
candidature autonome e la selezione è affidata al discrimine del primo
turno, cioè alla virtuale individuazione di candidati idonei. A differenza dei
tradizionali sistemi a doppio turno eventuale, entrambi i turni sono
necessari: il primo determina i candidati e il secondo gli eletti. Il sistema si
articola su un collegio nazionale per la Cassazione e la relativa Procura
generale, due collegi territoriali per magistrati della requirente e cinque
collegi territoriali per quelli della giudicante. Per la prima fase si prevedono
almeno sei candidature per genere, e se quelle presentate non raggiungono
tale numero, si ritengono candidabili in aggiunta i magistrati eletti ed in
carica nel consiglio giudiziario di uno dei distretti del collegio. Sempre in
questa fase ciascun elettore riceve tre schede: una per il collegio unico
nazionale, le altre due per il collegio del settore requirente e per quello del
settore giudicante; il voto si esprime con l’indicazione di una coppia di
candidati di genere diverso. Sono ammessi a partecipare alla seconda fase i
quattro candidati per ciascun genere e per ciascun collegio che abbiano
riportato il maggior numero di voti; in tale seconda fase il voto si esprime
con l’indicazione per ciascuna categoria di un sol candidato ed
eventualmente di un secondo candidato di genere diverso. All’esito
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risultano eletti i candidati che abbiano riportato la maggioranza di voti entro
il numero di eleggibili per ogni collegio; in caso di parità di voti il seggio va al
candidato del genere che ha riportato meno eletti nel collegio.
Questo sistema apre a più ampie disponibilità la platea degli aspiranti
in prima battuta e garantisce la parità di genere perché assicura, anche
attraverso l’eventuale ricorso ai componenti di consigli giudiziari, la parità
nella partecipazione al primo turno e l’espressione di una indicazione per
ciascun genere e per ognuna delle tre schede da utilizzare nel secondo
turno; inoltre, articolandosi su più collegi territoriali offre – a giudizio di
alcuni componenti della commissione – un sufficiente antidoto all’eventuale
discutibile supporto di apparati organizzativi rivolto a sostenere una
candidatura a livello nazionale. Tuttavia non formalizza né consente alcun
riconoscimento delle aggregazioni progettuali all’interno della magistratura.
Nel corso dei lavori è stato considerato anche un sistema misto, con
un meccanismo recante tratti fisionomici sia del proporzionale che del
maggioritario, nonché un sistema con collegio unico nazionale e a voto
trasferibile.
Nell’ipotesi cosiddetta mista si prevedono tre collegi nazionali
ciascuno con candidati della categoria di appartenenza inseriti in liste
composte ognuna da un numero di candidati eleggibili eguale al numero dei
voti assegnati al collegio. Non si prevede il voto di lista ma soltanto quello ai
candidati, nel senso che ciascun elettore può esprimere due indicazioni di
voto di genere diverso per candidati del settore di legittimità, due per
candidati del settore requirente, quattro per candidati del settore di merito,
eventualmente con il meccanismo del panachage. Risultano eletti i
candidati che abbiano riportato la maggioranza dei voti nei limiti del
numero di eleggibili in ciascuno dei tre collegi. Tale sistema rende
pienamente conoscibile, attraverso le liste, il concetto di giurisdizione nel
quale più candidati si riconoscono, ma non premia i candidati per il solo
fatto di appartenere ad una lista più votata di altre, legando l’elezione al
consenso personalmente conseguito da ciascuno. Garantisce inoltre la
parità di genere imponendola nella formazione delle liste e chiedendo
all’elettore una pluralità di indicazioni; il meccanismo è articolato in un
collegio unico nazionale per ciascuna categoria al fine di portare al Consiglio
rappresentanti ampiamente riconosciuti all’interno della magistratura ed
evitare l’autoreferenzialità localistica.
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Il sistema con voto trasferibile, è stato prospettato da uno dei
componenti subentrato soltanto nella fase finale dei lavori; pertanto la
commissione non ha avuto la possibilità di compierne un’approfondita
analisi. Tale sistema si articola su tre collegi nazionali; ogni elettore riceve
tre schede ed esprime il voto per un magistrato di legittimità, per due della
requirente e per quattro di merito, indicandone la preferenza secondo
l’ordine di scrittura. In sede di scrutinio si individua il quoziente elettorale
per ciascun collegio e se un candidato indicato come primo ha conseguito
un numero di voti superiore a tale quoziente, si realizza il voto trasferibile in
questo modo: dopo aver sottratto il quoziente elettorale dalla somma dei
voti da lui conseguiti, si divide il risultato per il numero delle schede nelle
quali l’eleggibile è stato indicato per primo e così si determina la frazione di
voti da trasferire al magistrato indicato in seconda scrittura, ovvero, se
questo non ne ha bisogno, a quello che lo segue in ordine di scrittura. Lo
spirito di tale proposta consiste nell’alleggerire l’elettorato dal vincolo del
cosiddetto voto utile, rispetto al sistema attuale. Naturalmente ciascun
elettore sarebbe comunque libero di scegliere il candidato indicato da una
corrente, ma si introduce la facoltà di aggiungere altro candidato così
minimizzando il numero di voti non rappresentati. Il sistema andrebbe
ulteriormente approfondito anche in ordine alla tutela del principio della
parità di genere.
La commissione si è soffermata a lungo su un altro sistema elettorale
sia per le caratteristiche di novità che esso presenta, sia perché sembra
soddisfare più degli altri le esigenze enunciate nella premessa, e cioè: di
favorire la parità di genere, di garantire la possibilità di scelta tra una platea
ampia di aspiranti ai quali sia possibile proporsi a prescindere dalla
designazione di gruppi associativi consolidati, di rendere riconoscibile il
progetto di giurisdizione che le candidature intendono rappresentare. Tale
sistema si articola in una prima fase di tipo maggioritario per collegi
territoriali e in una seconda fase di tipo proporzionale per collegio nazionale
con liste concorrenti. I collegi territoriali sono determinati in rapporto alla
consistenza dell’intero corpo elettorale ed a quelle delle singole categorie di
magistrati: cioè quattro per la categoria requirente e dieci per quella
giudicante mentre il collegio rimane unico per la categoria di legittimità. Alla
prima fase possono liberamente partecipare magistrati che si candidino
secondo la categoria di appartenenza e nel collegio ove esercitano l’attività
giudiziaria, su presentazione di un certo numero di colleghi del medesimo
collegio; sempre nella prima fase ciascun elettore riceve tre schede, esprime
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il voto per il candidato di ciascuna categoria e può esprimere un secondo
voto per un candidato di genere diverso che risulti dalle candidature
ammesse. Alla seconda fase è ammesso un numero di candidati pari al
quadruplo dei magistrati da eleggere per ogni categoria, i quali abbiano
ottenuto il maggior numero di voti calcolato in senso decrescente sino
all’anzidetto quadruplo; vale a dire otto per la legittimità, sedici per la
requirente e quaranta per la giudicante. Qualora non si sia realizzata la
parità di genere tra i candidati selezionati, si aggiungono altri candidati del
genere meno rappresentato i quali abbiano conseguito il più elevato
numero di voti tra i non ammessi all’esito del primo turno.
Le liste che si presentano nel secondo turno comprendono candidati
che hanno superato il primo turno e ne recano un certo numero,
possibilmente doppio o multiplo, per favorire la parità di genere. Secondo
alcuni componenti della commissione è possibile la partecipazione di una
lista monopersonale, non potendosi escludere dalla seconda fase chi abbia
superato la prima e che voglia presentarsi con specifiche prospettive
programmatiche. Secondo altri componenti la lista deve recare almeno una
coppia di candidati sia per riaffermare la parità di genere sia per non
scompigliare l’equilibrio delle consistenze numeriche relative agli ammessi
al secondo turno, che è un equilibrio di numero pari (otto, sedici, quaranta),
sia, ancora, per l’intrinseca natura di un sistema fondato su liste. C’è da
sottolineare tuttavia che l’eventualità di una lista monopersonale è
abbastanza teorica perché la consistenza numerica dei selezionati non può
non favorire aggregazioni pluripersonali per lista.
Sul piano della tecnica elettorale la prima fase realizza un sistema
maggioritario che offre un ampio ventaglio di selezionati. La seconda fase,
attraverso il voto di lista con la conseguente applicazione del quoziente
elettorale e con il voto di preferenza, realizza un sistema proporzionale; si
prevede la possibilità di una sola o di una duplice preferenza a favore di
candidati della stessa lista o anche a favore di candidato di altra lista purché
di genere diverso in entrambi i casi.
Siffatto sistema elettorale ha trovato ampia condivisione da parte dei
componenti della commissione per vari motivi.
Prima di tutto è nettamente diverso dal sistema vigente che è stato
considerato inidoneo e del tutto impari all’esigenza di eliminare gli aspetti
deteriori di certe interferenze di gruppi organizzati e, per altro verso, si
26
profila come un sistema del tutto nuovo rispetto ai meccanismi già
sperimentati nel tempo per l’elezione dei membri togati del Consiglio.
Inoltre tutela appieno la parità di genere e lascia ampio spazio a candidature
che si propongono liberamente, in modo che in prima battuta possano
confrontarsi capacità, idoneità, caratterizzazioni professionali e culturali,
personalità ed esperienze anche al di fuori del reticolo di gruppi e di vincoli
associativi, con analoga possibilità di valutazione e di scelta per l’elettore; e
ciò al fine di consentire la partecipazione alle tornate elettorali e poi,
auspicabilmente, alla formazione del Consiglio superiore, delle diverse
esperienze ed aree professionali esistenti in magistratura. Recupera in
seconda battuta, attraverso le liste, la condivisione di linee ideologiche,
culturali e programmatiche concernenti il governo dell’ordine giudiziario in
piena autonomia e indipendenza, la necessità di una rigorosa professionalità
per riorganizzare il servizio di giustizia in modo adeguato alla domanda dei
cittadini, cioè tende a recuperare la parte migliore delle logiche associative.
Nel contempo questo sistema ha la possibilità di ridurre notevolmente
l’incidenza di vincoli verso gruppi organizzati sia attraverso la legittimazione
da un primo turno con candidature spontanee, sia nel secondo turno
attraverso panachage e splitting in sede di votazione finale. Evita, infine, la
preoccupazione che un sistema esclusivamente maggioritario dia forza
pressoché esclusiva ad un solo gruppo organizzato rendendo impossibile
quelle diversità propositive, quel confronto, quella dialettica di variegate
esperienze professionali e culturali che, integrandosi con altrettante
esperienze della componente non togata, sono indispensabili ai fini di un
corretto governo della magistratura.
Senza dubbio le caratteristiche del sistema elettorale hanno una
notevole rilevanza; ma hanno altrettanto – e forse maggiore – rilevanza i
meccanismi operativi del Consiglio, cioè delle commissioni e del plenum, la
tempistica dei procedimenti, la tempestività delle decisioni soprattutto per
le procedure di maggior rilievo quali quelle degli incarichi direttivi e
semidirettivi di merito e di legittimità, e la stessa materia disciplinare.
L’innovazione di tali meccanismi operativi toglie di per sé spazio ed
occasione a illegittime invadenze e a malintesi vincoli di mandato.
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12. Il sistema elettorale per il consiglio direttivo della Cassazione e dei consigli
giudiziari.
La commissione ha rivisto il sistema elettorale del consiglio direttivo
della cassazione e dei consigli giudiziari soprattutto al duplice scopo di
assicurare la parità di genere e di realizzare alcuni ampliamenti numerici
nella composizione dei consigli giudiziari in rapporto all’ampliamento delle
competenze e alla tempistica operativa.
Come è noto, i componenti del consiglio direttivo della Cassazione,
dei consigli giudiziari e della sezione di questi relativa ai giudici di pace sono
eletti secondo un sistema proporzionale per liste concorrenti, un sistema
che per tali organismi non ha dato luogo a critiche o problemi e difficoltà. La
commissione, sulla base di un orientamento rappresentato con fermezza da
tutti i suoi membri, ha ritenuto di rivedere la disciplina secondo il principio
della parità di genere, proponendo la modifica degli articoli 4, 4 bis, 12, 12
ter e 12 quater del decreto legislativo 27 gennaio 2006, n. 25, nonché
dell’art. 4 del decreto legislativo 28 febbraio 2008, n. 35, nel senso che le
liste debbono sempre, a pena di impresentabilità, rispettare la parità di
genere dei candidati; inoltre l’elettore, se esprime due voti di preferenza,
non può che darli a candidati di genere diverso, e può anche attribuire una
delle due preferenze al candidato presente in altra lista purché di genere
diverso. In coerenza con tale orientamento, si è previsto che in caso di
parità di preferenze il seggio è assegnato al candidato di genere meno
rappresentato tra gli eletti. Insomma, il principio della parità di genere deve
inserirsi nell’intera tramatura dei sistemi elettorali, cioè deve applicarsi nella
proposizione delle candidature, nelle opzioni di voto e in qualunque altro
aspetto dei meccanismi di elezione
Un’altra modifica riguarda la composizione numerica dei consigli
giudiziari.
La disciplina vigente contenuta nell’art. 9 del decreto legislativo n. 25
del 2006 rapporta l’entità dei componenti al numero dei magistrati nel
distretto, e ciò non soltanto per motivi di rappresentatività ma anche per
un’equa distribuzione del carico di lavoro che può derivare dalla platea degli
organici. Poiché le proposte formulate hanno ampliato i compiti di questi
organi di collaborazione del Consiglio superiore stabilendo, fra l’altro, una
più rigorosa dinamica operativa, si è ritenuto necessario rivederne la
composizione numerica.
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Secondo l’art. 29 del decreto legislativo n. 25 i distretti con un
numero di magistrati non superiore a trecentocinquanta hanno un consiglio
giudiziario di cui fanno parte cinque magistrati (oltre quelli di diritto); nei
distretti con oltre trecentocinquanta magistrati, i componenti togati del
consiglio giudiziario sono sei. Ebbene, per i motivi suesposti si propone di
considerare tre categorie di distretti, cioè con un numero di trecento
magistrati, con un numero da trecentocinquanta a seicento e con un
numero superiore a seicento; per la prima categoria il consiglio avrebbe un
magistrato in più, per la seconda avrebbe dieci componenti togati e per la
terza quindici. Queste composizioni consentono di far fronte
all’ampliamento dei compiti e, soprattutto, a quella strategia di tempestività
di cui l’organizzazione giudiziaria ha veramente bisogno per la sua credibilità
operativa e per una diversa dinamica del servizio di giustizia nel preminente
interesse della collettività.
13. La delega al Governo.
Le disposizioni che regolano la composizione del Consiglio e i suoi
poteri, la struttura e il funzionamento della sezione disciplinare, i compiti
degli organi di collaborazione, il sistema di elezione dei componenti togati
del Consiglio superiore, del consiglio direttivo, dei consigli giudiziari e
quant’altro riguarda detti istituti sono distribuite in molteplici leggi, decreti
legislativi e regolamenti, spesso diacronici e comunque privi di un
coordinamento che dia un tessuto uniforme alla disciplina e consenta, tra
l’altro, una corretta e agevole lettura. Di qui la necessità di una delega al
Governo, affinché, con uno o più decreti legislativi e regolamenti, si possano
coordinare le molteplici previsioni normative anche con le altre norme
dell’ordinamento giudiziario.
Il richiamo nella delega ai regolamenti si rende necessario perché il
coordinamento deve riguardare anche il decreto del Presidente della
Repubblica n.916 del 1958, sezioni da I a V, contenente norme di attuazione
per l’elezione dei magistrati, e il decreto del Presidente della Repubblica n.
132 del 1990 concernente la definizione delle schede elettorali. È possibile
una diversa scelta di intervento realizzata mediante la redazione di nuove e
specifiche norme con abrogazione delle preesistenti, in modo da ottenere
un testo immediatamente operativo, ma con il limite di legiferare anche su
aspetti di natura prevalentemente esecutiva disciplinati con regolamenti.

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